“Anche se tutti io no”

Mascherina1di Isidoro Pennisi*-Premetto che non solo so che nessuno tra di noi è al riparo dalle conseguenze peggiori di questo virus, ma ho anche due genitori anziani e con patologie varie già delicate, una sorella che ha un fenomeno asmatico cronico, ed io stesso, essendo un fumatore di lunga data, avrò certamente un apparato respiratorio tra i meno pronti a sopportare o respingere le infezioni polmonari caratteristiche di questo virus. Lo dico per provare a evitare che ciò che dirò possa essere inteso non per quello che è, quindi discusso o criticato per quello che prova a dire, ma come se fosse un retorico ragionamento in cui la ragione si morde la coda, oppure una ricaduta cinica della ragione astratta. Una volta che ho detto questo, non posso fare altro per evitare reazioni stupide, anche quando saranno comprensibili.

Cosa ci si aspetta da un virus, conosciuto oppure di nuova circolazione sul Pianeta? La virologia è un settore scientifico autonomo abbastanza recente, ma i fenomeni virali ed epidemici, al contrario, sono ben conosciuti da qualche millennio. Da un virus ci si aspetta un certo numero di morti premature, rispetto alle attese di vita, collegate alle infezioni di cui essi sono portatori. Un geroglifico datato più di tremila anni fa, sembra che narri esattamente una vicenda epidemica, e mille anni prima della nascita di Cristo in Cina si era già capito che il vaiolo, nei suoi passaggi ricorrenti, immunizzava le persone che lo avevano contratto e che erano riuscite a guarire, tanto da escogitare una cura che consisteva nel far inalare ai malati (come se fosse tabacco) la polvere delle croste di vaiolo prelevate da chi era in fase di guarigione. Oltre a quello che nel tempo abbiamo capito ed escogitato per curare o limitare le epidemie virali, però, a nessuno era mai venuto in mente prima d'oggi che un fenomeno del genere potesse non mettere in conto la morte prematura di esseri umani. La prima cosa che quindi dobbiamo notare e provare a spiegare è questa novità nei nostri comportamenti collettivi, che ci vede, quindi, pronti a fare di tutto non per limitare (stabilendo quindi un limite possibile) ma per evitare in maniera illimitata che non muoia nessuno, o quasi. Sembra, al momento, che la consapevolezza su cosa sia un virus, in base alla quale si devono organizzare strategie collettive di difesa possibili e quindi risolutive, abbia perso il suo valore sociale assumendo solo quello medico e sanitario.

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La sorpresa che un virus inedito possa portare la morte, in fondo, era prevedibile se pensiamo a come il tema dei vaccini sia stato negli anni passati un tema divisivo anche in ambito politico, culturale e, alle volte, anche scientifico, diventando terreno d'apparenti legittime opinioni. Questo è stato possibile perché era convinzione inconscia molto comune che il virus fosse ormai qualche cosa d'inesistente in natura, tanto da spingere molti a rinunciare ai costi, anche umani, di una difesa. E questo vale per altre questioni ritenute, a torto, antiche o medioevali, come una guerra, una carestia, una calamità naturale diversa da un Terremoto. In sostanza, una delle caratteristiche del nostro tempo è la superstizione, corroborata semplicemente da un centinaio d'anni di fortunata moratoria di alcuni fenomeni, invece da sempre ricorrenti, in cui si crede che il nostro tempo abbia qualche cosa di più e di speciale tanto da potersi permettere di considerare esaurite e domate molte delle durezze naturali e sociali di questa vita. Una superstizione (riaffermo questo termine) proprio perché non esistono prove logiche e razionali per cui il mondo abbia debellato i virus, le eruzioni vulcaniche catastrofiche, le guerre (tranne quelle che coinvolgono le società che noi riteniamo presuntuosamente ancora regredite e che guardiamo in televisione compatendone i protagonisti) e le carestie. Questo è il dato saliente che emerge sin dall'inizio di questa vicenda: incredulità. Un'incredulità che non ha portato immediatamente a una coscienza, così da recuperare la lucidità necessaria a comprendere la situazione e prendere delle misure tattiche e strategiche che tengano conto dell'intero quadro del problema e non soltanto di quello medico e sanitario.

Ed è qui che si compie, il nostro presente e il nostro futuro: sull'assenza o la presenza di realismo complessivo nelle scelte che sono state fatte e che si stanno compiendo. Un realismo che non intravedo e mi preoccupa ormai da giorni. Perché non è qui in discussione la gravità del virus (troppo grave, anche se la stessa comunità scientifica all'inizio non trovava nemmeno un accordo sul suo livello di pericolosità) ma il continuare a pensare secondo un mix di medicina, retorica sanitaria ed economia domestica, senza coinvolgere nelle analisi e nelle conseguenze delle azioni da compiere il futuro prossimo delle comunità investite, i loro stili di vita, le loro speranze. Il realismo e il cinismo sono una coppia di termini che stanno insieme solo nella bocca degli stupidi, perché il realismo non è automaticamente cinismo così come il contrario. Se, ancora adesso, durante un naufragio si da precedenza a donne e bambini, non è per tradizione, ma perché questa decisione è il frutto di realismo e non di cinismo. Perché realisticamente (per fisico e non per intelligenza) gli uomini, mediamente, hanno delle maggiori possibilità di stare in acqua per un tempo più lungo per attendere i soccorsi, senza affogare, rispetto alle donne e ai bambini.

E' dentro questo quadro, senza avere bisogno d'altre giustificazioni mediche o scientifiche (di cui non solo non sono competente, ma che incidono sulle scelte per la loro quota parte che, però, non è la sola, come invece ormai sembra) che io, senza potermi permettere un timore reverenziale, provo lecitamente a far notare i punti deboli, pericolosi, delle scelte che abbiamo compiuto, senza per questo tirarmi fuori dagli sforzi che tutti stiamo facendo.

Siccome la metafora della guerra, della battaglia, del nemico, ormai serpeggia nel nostro lessico (forse più del virus stesso) allora non mi allontano da quest'ondata di metafore belliche per dire che l'obiettivo strategico di una battaglia ha sempre il nemico come oggetto, ma non sempre la scelta di come neutralizzarlo è la sua sconfitta, perché essa non sempre coincide con la sua scomparsa. Soprattutto in questo caso, direi, in cui dovrebbe essere noto che il confronto con i virus è permanente, perché non essendo essi degli "esseri viventi" il massimo che si può fare è renderli innocui attraverso le difese immunitarie che ci costruiamo, storicamente, affrontandolo in modi diversi: attraverso la nostra vita intesa come processo genealogico (da una generazione all'altra il nostro fisico ha aumentato e articolato le difese immunitarie, perché senza mia nonna morta di tubercolosi io non sarei quello che sono) mediante la medicina (che si è attrezzata sempre al meglio) e con i vaccini (che da un certo punto in avanti ci hanno offerto un'arma quasi risolutiva). Avere come obiettivo strategico la sua scomparsa è irreale; misurare il confronto su tempi diversi da quelli che servono per renderlo innocuo è altrettanto irrealistico. La conseguenza di tutto questo, allora, è scegliere una strada sostenibile sui tempi che occorrono, perché una scelta o troppo radicale o troppo blanda, per motivi diversi, andrà incontro al suo limite di sostenibilità. Raggiungere quel limite prima d'aver acquisito gli obiettivi strategici che si sono posti alla base delle misure tattiche utilizzate, può ottenere solo il peggioramento del confronto a favore del virus. Un peggioramento pericoloso, che è conseguenza del deterioramento delle condizioni al contorno, che non sono meno importanti di quelle sanitarie che, nel deteriorarsi, sono capaci d'accendere una diversa epidemia, di tipo sociale, con processi disgregativi non controllabili, che aggiungerebbero vittime, problemi, senza per questo fare passi avanti definitivi per rendere innocuo il virus. Insisto. Il problema non è spegnere un incendio, perché l'insorgere epidemico di un virus mai manifestatosi prima finisce non con il suo spegnimento ma trasformando il materiale infiammabile (gli esseri umani) in materiale ignifugo, affinché la fiamma, che non possiamo spegnere in tempi convenuti, non incendi più nessuno. Nella storia dell'umanità, al momento, solo il vaiolo, dal 2011, è stato dichiarato eradicato dal Mondo, ma si suppone che la prima volta che si sia manifestato fu un milione d'anni fa circa. Con tutti gli altri conviviamo senza che ci facciano tanto del male (dopo avercene fatta tanto la prima volta) perché siamo noi che abbiamo attrezzato il nostro sistema immunitario in maniera tale che non ci facciano del male.

Cosa mi preoccupa e perché sto scrivendo? Mi preoccupa la risposta che stiamo dando, irrealistica nel suo obiettivo: sconfiggere sul campo di una sola battaglia campale il virus, senza nemmeno prendere in considerazione i costi sociali di questo tentativo. E non parlo di denaro, di posti di lavoro, di finanza o di economia ridotta a filastrocca. Parlo degli stili di vita, delle libertà che sono costate del sangue, dei diritti che sono costati delle vite, dei sogni di un tempo che oggi sono ancora presenti nel reale ma che stiamo mettendo a rischio e sacrificando dentro una specie di suicidio rituale collettivo. Un'epidemia si governa nel tempo, per arrivare ad acquisire i necessari fattori immunitari, utilizzando in maniera equilibrata le tre condizioni necessarie per acquisirli. Aumentare i livelli di capitale umano e di attrezzature nei punti nevralgici dove la parte più grave delle conseguenze deve essere contrastata in maniera efficace per evitare al massimo i decessi. Contenere una diffusione senza controllo, ma farlo in maniera possibile, in modo che possano essere sostenute dal corpo sociale. Riconfigurare e concentrare su questo virus la ricerca internazionale, così da giungere al più presto a un vaccino e a delle terapie adeguate. Comporre queste tre azioni ci permetterebbe di affrontare questo deserto, che deve essere attraversato, senza essere tentati di fermarci tutti all'ombra di una duna o intorno ad un'oasi, in attesa che le condizioni migliorino, perché anche se ciò fosse vero (ed io non lo so) il fermarsi per un tempo illimitato farebbe perdere l'equilibrio delicato di una comunità che ha bisogno del cammino. Una comunità che si ferma, infatti, si pone in una situazione innaturale in cui le differenze, coniugate e composte nel cammino (di classe, generazionali, di genere, ideali) inizieranno in un primo tempo a confliggere verbalmente; poi inizieranno in maniera autonoma a organizzare il tempo e le risorse ristrette del posto in cui ci si è fermati; di seguito tenderanno a misurare i rapporti di forza per imporre agli altri le condizioni migliori per se stessi. Il tutto in un susseguirsi non più arrestabile di conseguenze che io conosco e avverto (perché già accadute in passato) e che se pur non prevedibili, sono razionalmente attendibili. Conseguenze frutto di vicende al momento non definibili, e che quindi potrebbero assumere vesti violente o meno, radicali o graduali, repentine o lente. E questo, se avverrà, succederà dentro una novità, assolutamente sconosciuta nel passato. Ciò che ho ricordato, infatti, non sta avvenendo, come in passato, dentro una comunità definita, e non si risolverà attraverso un processo di destabilizzazione circoscritta (un Regno, un Impero, una Nazione, un Continente) ma sarà globale, quindi del tutto sconosciuta anche a chi ne immagina i contorni sulla base dei precedenti, come in fondo sto provando a fare io, forse male e rischiando incomprensione e incredulità che, al momento, sono la cifra delle emozioni e della ragione corale.

Ovviamente, ciò che ho detto non ha soluzione alla carta (e se ci sono esse vanno oltre le mie capacità di immaginarle al momento e sostenerle) e non vuole essere una maniera di tirarmi fuori o di convincere chiunque a tirarsi fuori dallo sforzo che si sta facendo. Stiamo a casa, quindi, ma iniziamo a prepararci a offrire il petto o le spalle alle conseguenze di questa vicenda che, comunque andrà, per ognuno di noi, in rapporto a come la vivrà, sarà la misura reale di ciò che questa vita rappresenta nella breve esperienza che ci è concessa. Andiamo avanti.

*Docente universitario